Il mio primo Margareth Mazzantini! Lo trovo in edicola. Le prime righe mi spiazzano: Il catino di zinco infatti ha un esordio che fa letteralmente cascare le braccia. Mi accoglie una prosa imprevedibilmente aulica, densissima di vocaboli antiquati e inusuali... Una ricercatezza d'altri tempi, oggi estremista e suicida, che però, per misteriosi motivi, non coinvolge la punteggiatura, la cui approssimazione, nelle prime pagine, stride. Sono sorpreso e disgustato: mi sembra di leggere un brutto libro scritto da Gabriele D'Annunzio cent'anni fa! Ma dopo poche insopportabili pagine, lo pseudo D'Annunzio deteriore per fortuna lascia il posto ad un narratore più moderno e coinvolgente. Tornerà purtroppo di tanto in tanto a contribuire a modo suo al romanzo, mentre la Mazzantini ci racconterà una storia familiare che parte da nonna e nipotina, per poi andare indietro di qualche generazione, e infine ridiscendere fino al letto di morte della nonna.
Uno strano rapporto di amore-odio, quello che lega la nipote alla nonna. Sul finire, poi, di punto in bianco, ecco quattro imprevedibili pagine di stream of consciusness pseudo-joyciano, anche se focalizzate più sul passato che sul presente. Il tutto dà a Il catino di zinco l'aspetto di un quadernino di esercizi di stile. Con tutto ciò il libro resta in qualche modo piacevole da leggere, con la sua saga quasi banale di personaggi minimi e però proprio per questo veri. Ma i meccanismi che motivano le giurie dei premi letterari mi restano oscuri.
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