Cemento armato è un nuovo racconto per voi, tratto da una mia raccolta inedita, anzi... inesistente. Comunque sia, io ve lo regalo, e voi, se volete, regalatemi un commento.
Gianluca Gemelli
CEMENTO ARMATO
Continuiamo ad avanzare lentamente, armi
in pugno, guardandoci attorno circospetti. Ma da più di mezzora non c’è anima
viva, neanche le cornacchie. Niente spazzatura in giro. Non una carcassa d’auto.
Appena un’ora fa eravamo sfilati accanto a una vera processione di auto
sventrate, prive di ruote, sedili e motori, abbandonate a lato della strada. Ma
qui niente. Anche le scritte sui muri e i disegni sconci dei writers si sono
via via diradati e ormai sono scomparsi da un pezzo.
Ho quasi l’impressione che dove siamo
ora non sia mai arrivato l’uomo: come se le gru delle imprese edili avessero
lavorato da sole, a costruire questo obbrobrio. C’è solo cemento e cemento: dove
camminiamo, a destra e a sinistra, solo cemento. Più qualche cespuglio secco
che spunta, lì dove si è infiltrata un po’ di terra. Il sole picchia forte. Fa
un caldo pazzesco.
Nessuno di noi è mai stato quaggiù. Le
precedenti retate non si sono spinte fin qui. Ma oggi saremo almeno trecento,
tra agenti e altre forze dell’ordine, in quello che vorrebbe essere un vero e
proprio rastrellamento militare. Non è un segreto che in questo deserto di
cemento alla periferia della città, grande come un’intera altra città, i boss delle
cosche Farace e Nargiso nascondono laboratori per tagliare la droga, depositi
di armi, persone rapite, latitanti... E alla mia squadra − in tutto siamo in dodici
− è toccata questa zona. Solo un quadratino nella mappa: non ci sono strade,
non ci sono regole, da queste parti. Perlustrare e poi proseguire per il punto
di raccolta.
Questa mostruosità, questo labirinto
grigio che forse non basteranno nemmeno le centinaia di poliziotti armati fino
ai denti che sono qui oggi, a bonificare, avrebbe dovuto essere il quartiere di
una grande esposizione. Ma vent’anni fa fu scelta, probabilmente a forza di
tangenti, una zona priva di collegamenti stradali, che poi, naturalmente, non
furono mai realizzati. Ai costruttori quel che interessava era solo fare queste
inutili colate di cemento, per realizzare in fretta e furia i loro enormi guadagni,
prima che i magistrati bloccassero per sempre tutti i lavori, che fossero
legali o no.
Il palazzo alla nostra sinistra è un
cubo privo di finestre. Il piazzale ha
la forma, sgradevole, di un trapezio. In fondo c’è una gigantesca costruzione
che sembra quasi un’antica rovina, ma in realtà è solo lo scheletro di cemento armato
di un enorme centro commerciale mai completato. Si vedono i pilastri, i
pavimenti e le scale nude che collegano i piani.
− Lì! − indica il soprintendente. L’ho
conosciuto oggi, non mi ricordo come si chiama. È di un’altra provincia.
Abbiamo molti rinforzi che vengono da fuori, oggi. Questa è un’operazione
grande, che probabilmente passerà alla storia. Si dice che una squadra, al
margine sud, abbia già preso un pezzo grosso, forse Ciccio Farace in persona, e
che un’altra abbia trovato un camion pieno di kalashnikov e lanciarazzi
anticarro.
− Dove, soprintendente? − gli domando
piano. − Non c’è niente lì. I piani sono vuoti, sono scoperti: mancano le
pareti...
− Di sotto! Nel garage!
Ha ragione. Non c’è nessuna strada, ma
alla base del mostro di cemento davanti a noi c’è una rampa di accesso che scende
fino a un’apertura rettangolare e buia. Lì sotto, certamente non ci piove
dentro. E gli elicotteri della polizia non possono guardare.
Il grande spazio sotterraneo è vuoto. I
lucernari fendono il buio con lame di luce solare. Scalini di cemento, sia a
destra che a sinistra, scendono negli scantinati.
− Voi due a scendete lì a destra, −
indica me e Marco Doci, − voi altri due lì a sinistra. Noi proseguiamo per di
là. Ci ritroviamo tutti dall’altra parte. Ragazzi, ricordatevi dove siamo. Chiunque
incontriamo bisogna dar per scontato che è armato e pericoloso. Perciò qualsiasi
cosa succede... sparate. Sparate senza preoccuparvi di protocolli o denunce. Ci
penseremo noi a pararci il culo a vicenda.
Annuiamo. Sapevamo che saremmo stati
divisi in coppie durante la perlustrazione. Io e Marco iniziamo a scendere, io
davanti e lui dietro. Sono io il più anziano, comando io: ho io la pistola e la
ricetrasmittente, e lui mi segue giù per le strette scale. Preferisco averlo al mio fianco, piuttosto che dietro con la mitraglietta spianata. Diventa più buio. I
lucernari sono pochi e non ci sono lampade, quaggiù, anzi non c’è nemmeno la corrente.
Le scale continuano a scendere per un’eternità. Ora però c’è un corridoio.
Distinguo delle porte di ferro. Devono essere le cantine.
− Che facciamo? − chiede Marco. Lo
zittisco con un dito: mi è sembrato di sentire qualcosa. Restiamo in silenzio,
in ascolto. Sì! C’è qualcuno, qui: si sentono dei lamenti.
Camminiamo piano. C’è silenzio, ora. Quando
siamo davanti a una delle porte, sentiamo di nuovo qualcosa. Sì, c’è proprio qualcuno
che piange, lì dentro. Forse qualcuno dei rapiti. Prendo la ricetrasmittente,
ma il display mi informa che non posso contattare il soprintendente. Il cemento
fa da schermo. Cerco di aprire la porta. La maniglia gira. La porta si apre. È
pesante, vibra un po’ per l’attrito, ma i cardini non fanno troppo rumore.
Entriamo. Aspettiamo un po’ per abituarci al buio. Non osiamo accendere le
torce per non rivelare la nostra presenza. Ora distinguiamo un corridoio cieco.
Nient’altro. Eppure sentiamo ancora dei gemiti. Com’è possibile? Ecco: c’è una
scaletta sulla destra che va ancora più giù. Scendiamo: la porticina in fondo
alle scale ha delle feritoie orizzontali da cui filtra la luce dell’esterno.
Siamo stupiti: siamo scesi chissà quanto sottoterra, eppure sembra che stiamo
per sbucare all’aperto!
Apro la porticina. In effetti siamo
fuori, in un piccolo cortile. Guardare in su, verso un lontanissimo quadratino
di cielo è sgradevole: le pareti interne del palazzo sembrano altissime,
quaggiù dove siamo. Più che in un cortile interno, siamo in fondo a un pozzo
profondissimo.
Sul pavimento davanti a noi ci sono
degli elementi piatti e spioventi, che coprono dei lucernari. C’è un ambiente,
da qualche parte lì sotto, ancora più in basso di noi, ed è da lì che
provengono i gemiti che sentiamo.
− Dove sarà l’entrata?
Marco non può darmi una risposta. I
gemiti continuano. C’è qualcuno che soffre, laggiù.
− Dobbiamo fare qualcosa. Dammi una
mano! − dico. Marco mi aiuta a smuovere e a sollevare lo spiovente. È di quel
materiale che ho visto tante volte nelle discariche abusive. Non mi ricordo
come si chiama, ma è una roba piena zeppa di amianto. Tiriamo. Tiriamo. Alla
fine cede e viene via.
Abbiamo tolto un pezzo di copertura
largo come un cartellone pubblicitario, e non riusciamo a credere ai nostri
occhi. C’è una stanza lì sotto, ed è piena di gente. Sono tutti seduti gli uni
accanto agli altri. Sono uomini, donne e bambini, tutti nudi, magri, sporchi,
neri. Capelli e barbe sono lunghi fin quasi a terra. Alcuni bambini piangono.
Sono loro che abbiamo sentito. Le teste di tutte queste persone, e sembrano
centinaia, sono a un pelo dal pavimento del cortile: il soffitto è talmente
basso che non possono alzarsi in piedi. Ci guardano spaventati, socchiudendo
gli occhi: la debole luce solare che arriva quaggiù è abbagliante per loro.
Io e Marco siamo senza parole. Torno a
guardare in basso e altri particolari si aggiungono al quadro. Sono tutti
seduti a dei lunghi tavoli da lavoro: ci sono stoffe, rettangoli di pelle,
rotoli di filo, tasche e maniche di vestiti ancora da completare... e centinaia
di macchine da cucire di metallo annerito, come quella che usava la mia
bisnonna. È un laboratorio clandestino: una sartoria. E quelli sono... gli
schiavi. Nessuno di loro parla. I bambini continuano a piangere, piano.
− Polizia! − dico, alla fine. − Venite
fuori! Siete liberi adesso!
Mi guardano. Nessuno si muove.
− Venite con noi! Vi portiamo fuori di
qui! Tornerete dalle vostre famiglie!
Nessuno risponde. Un vecchio ha ripreso far
girare il volano della macchina per cucire. Sta cucendo un portafogli di cuoio.
− Forza! Venite fuori! Siete liberi! −
Sto fissando gli occhi sulla ragazza sotto di me. È magra come uno scheletro e
nera come un tizzone, ma distinguo il colore dei suoi occhi. Sono azzurri.
− Venite fuori, ho detto!
− Non... Non possiamo, − mormora lei.
Sembra aver paura anche della propria voce.
− Ma certo che potete. Avanti tu,
alzati!
La prendo per un braccio e la tiro su.
− No, no! − fa lei, cercando di
resistere. − No! Ho paura!
− Non c’è niente da aver paura! Ci sono
io! − rispondo. Sorrido. Cerco di rassicurarla. Tiro più forte. È leggera come
uno scricciolo. In un attimo ce l’ho tra le braccia. Mi guarda. Guarda il
cielo.
Succede tutto in un attimo: la ragazza
grida, avvampa di fiamme blu e gialle, si carbonizza, si polverizza. Non ho più
niente tra le braccia. Davanti a me c’è solo un mucchio di cenere fumante. Mi
sono tirato indietro urlando, ma me ne è finita un po’ sulle scarpe. Mi sono
scottato un po’ le mani. Me le guardo e vedo che ho della fuliggine sui palmi. Mi ripulisco
sui pantaloni. Guardo Marco. Trema. Ha visto tutto anche lui. Ma lo so anche da
solo che non ho sognato.
La porta del cortile si apre. Arrivano di
corsa due uomini. Uno ha un completo nero, con tanto di cravatta e cappello, e
occhiali scuri: sembra uno dei Blues Brothers. L’altro è poco più di un ragazzo,
ha i capelli rasati a strisce sulle tempie, indossa pantaloni corti e una
maglietta attillata sul corpo magro e palestrato, e ha le braccia piene di
tatuaggi; somiglia a un tronista televisivo, oppure a un calciatore di serie A.
Mi basta un attimo per mettere da parte l’orrore e lo sbigottimento e
ricordarmi le parole del soprintendente Fierro − ecco come si chiama: me lo
sono ricordato − e aprire il fuoco con la Beretta. Marco mi segue a ruota e
spara due raffiche di mitraglietta. I due dovrebbero essere crivellati, morti,
ridotti a colabrodi, invece non solo restano in piedi, ma reagiscono come se
gli avessimo sparato contro delle mosche anziché delle pallottole. Io e Marco
restiamo a guardare, increduli.
Il giovane apre un coltello a
serramanico e inizia tranquillamente a cavarsi tre o quattro pallottole − ma
che fine hanno fatto tutte le altre? − che gli spuntano dal petto e dalle
braccia, conficcate a metà. Niente sangue. L’altro si rivolge a me:
− Non potete aiutare queste persone.
Nessuno può aiutarle.
Gli sparo ancora. A bruciapelo, sul
volto. Un colpo, Due colpi. Tre colpi. Niente: le pallottole sembrano
dissolversi. Non so più che fare.
− Amico, non credo che tu abbia a capito
con chi hai a che fare e che posto è questo!
Si toglie gli occhiali. I suoi occhi
sono braci rosse ardenti. Si solleva il cappello quel tanto che mi permette di
intravedere un paio di magnifiche corna arcuate, e poi lo rimette al suo posto.
Ride.
E'fatto bene e è horror ...OK...
RispondiEliminaChe poi, a parte i non morti, realtà infernali simili esistono davvero... è forse quello il vero orrore.
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