Sul filo di lama... Incontro con Carlo Cavazzuti
di Gianluca Gemelli e Carlo Cavazzuti
E dove poteva abitare Cavazzuti, autore di un libro con protagonista un eroe della rivoluzione francese, se non in un paesello modenese chiamato Bastiglia?
Seguendo le indicazioni che mi sono appuntato su un foglietto, esco a Modena Nord e mi faccio un pezzo di statale 12. Facile. Ma quando finalmente entro in paese, dopo cinque ore e mezza di macchina, un po’ me lo chiedo: chi me l’ha fatto fare? È già quasi sera, ed è vero che domani mattina attacco alle dieci, ma ho il compito in classe in Seconda F, e lo devo ancora stampare. Insomma, dopo l’intervista dovrò ripartire subito, e mi tocca viaggiare di notte.
Mi aspettavo un angusto borgo medievale: mura, palazzi antichi… Bastiglia invece è un paesone squadrato, con strade ampie e belle palazzine. Tutto nuovo o rimodernato.
C’è qualcosa che non va: ho paura di essermi perso. Mi fermo nella piazza principale a chiedere indicazioni a un gruppo di anziani che giocano a carte al tavolino del bar. Mi guardano tutti storto e nessuno mi risponde. Oh, beh, magari non conoscono l’indirizzo che ho chiesto, semplicemente questo. Oppure si vergognano a parlare coi forestieri, chi lo sa. Poco male: controllerò su Gmaps.
Ah, ecco. La via che mi indica il cellulare non è in centro. Ho sbagliato a svoltare: destra invece che sinistra all’ultimo semaforo. Ritorno sulla statale.
Svolto a un incrocio con un ristorante messicano, La Torre Antica, si chiama. Sembra quasi scelto apposta: la Bastiglia, La Torre Antica... Fa scena, no? La stradina in breve diventa uno sterrato e si allontana dalla cittadina. Di nuovo non sono sicuro della mia direzione.
Continuo, titubante, per un chilometro, inoltrandomi tra i campi di grano, costeggiando l’argine di un fiume, finché quasi non vado a sbattere contro il cancello di una villa, con annesso un enorme torrione. Tombola! Sono arrivato a destinazione. Sul cellulare ho anche una foto in bianco e nero che ritrae questo posto.
A destra scorgo, tra il verde, le case di un minuscolo borgo, che una volta era dominato dal castello sui cui ruderi fu costruita la villa. Tra le frasche si intravedono ancora i resti dell’antico muro di cinta, che si perdono verso il fiume. Bello. Però ha anche qualcosa d’inquietante.
Il posto è sicuramente questo, ma per sicurezza abbasso il finestrino:
“Scusi…” chiedo all’unica altra forma di vita umana presente, un vecchietto con la coppola in testa, che sta aspettando che il cagnolino che ha al guinzaglio faccia il suo dovere serale. “Per caso conosce il signor Cavazzuti?”
“Le lò al sta lè, ma fuss in vòang’andrèv mia! Le lòlèmát” risponde quello, indicando la porta alla base della torre, e si allontana in fretta tirando il cane, proprio quando questo sembrava essersi finalmente deciso a scaricare la zavorra. “Dàtnamosa a caghér, Sandròun ch’ant sii èter!”
Parcheggio per bene la macchina, scendo e mi avvicino alla torre. C’è uno stemma araldico sopra l’architrave. Una targhetta bruna, di ferro, è inchiodata sulla porta, e… sì, ci dev’essere inciso sopra Cavazzuti, ma si legge a fatica: il metallo è consumato e la grafia è antiquata. Non trovo il pulsante del campanello, ma c’è una campana, appesa più in alto, con una catenella pendente. La tiro. Il suono della campana non mi dà esattamente una bella sensazione. Non so perché, ma di nuovo me lo chiedo: chi me l’ha fatto fare?
La porta si apre, e mi trovo di fronte… Portos. Questo è il mio primo, ridicolo pensiero, quando vedo l’omaccione che mi accoglie sulla soglia. Indossa un’ampia camicia bianca, senza bottoni, con le rouches sul petto e ai polsi, pantaloni al ginocchio e stivali di cuoio. Sorride sotto i baffoni.
“Benvenuto nella mia dimora!”
“Carlo?”
“E chi se no?”
Mi fa cenno di entrare.
“In effetti… Sei vestito come un personaggio di Jean!” mi azzardo a dire. Ed è vero, ora me ne rendo conto: non è un moschettiere seicentesco, ma un uomo dei primi dell’ottocento.
Lui ride:
“Come sai, io mi documento sempre accuratamente: per me scrivere un romanzo storico significa vivere come i personaggi dell’epoca. Ma ti assicuro che questo abbigliamento è comodo, e lascia molta libertà di movimento…”
Mentre lo dice impugna una spada invisibile, e fa il gesto di mulinarla qua e là.
L’interno della torre è ancora più grande di quanto s’intuiva vedendola dal di fuori, e l’arredamento è antico e lussuoso: ci sono finestre con riquadri di vetro colorato, un ampio salone con doppia scalinata, in cima al quale c’è un ballatoio, e sicuramente ci sono molte altre sale e stanze. Arazzi e tendaggi ovunque.
È un po’ buio… Perché l’ambiente è rischiarato da candelabri: ce ne sono da tutte le parti. Luce elettrica non ne vedo.
“Vieni, saliamo nel mio studio.”
Lo seguo su per la scalinata destra. Si siede su una Savonarola, dietro alla sua scrivania, e io mi sistemo davanti a lui, su una poltroncina di legno con la seduta imbottita e i bottoni di metallo lungo le cuciture. Non ne vedevo di così da anni. Intorno a noi, libri antichi, ben sistemati nei loro scaffali di legno scuro. Al muro: uno scudo di legno dove s’incrociano due lunghe spade dalle impugnature decorate.
“Bello, qui!” dico. Lui sorride.
La scrivania di Carlo è ingombra di fogli di carta. C’è anche un calamaio e una penna d’oca. Sorrido: anche quegli oggetti servono a far scena. O no?
“Ma…” balbetto, indicando i fogli.
“È il mio nuovo romanzo,” spiega lui.
“Ma…” insisto. “La penna d’oca… Non userai mica quella roba lì per scrivere?”
“Certo che la uso,” risponde lui stupito. “Che altro dovrei usare?”
Beh, un computer, per esempio, vorrei rispondergli, ma chissà perché ho la sensazione che se lo facessi lui mi guarderebbe con uno sguardo strano e diffidente. Anzi, a dire il vero, lo sta già facendo.
Beh, è ora di incominciare: si sta facendo tardi. E poi mi sento un po’ a disagio, qui. Meglio sbrigarsi.
GG: Carlo Cavazzuti, autore di due romanzi storici: Jean e il nuovo Le Rune di Leif. Ma io so che, al di là dei romanzi, la scherma, i cavalli e il mare sono fra i tuoi grandi amori. Ce ne vuoi parlare?
CC: La scherma innanzitutto, ne sono maestro dopo quasi trentatré anni di pratica, è ciò a cui ho dedicato la mia vita. Iniziai con fioretto e sciabola da un gran maestro che forgiò tanti campioni e lo fu a sua volta, poi passai alla parte storica, con la sua pelle di ferro e le sue armi antiche.
Per i cavalli è stata quasi una predestinazione. I miei genitori al posto dell’auto degli sposi avevano una carrozza, e a me hanno portato a battesimo sullo stesso mezzo. Un amico di famiglia è fantino e allevatore, e io sono cresciuto in mezzo e sopra a quei cavalli. Quando avevo una ventina d’anni, durante una giostra all’incontro, a un torneo al castello di Bard, ebbi un grosso incidente: disarcionato in un brutto modo che ancor mi offende! Ho impiegato quasi dieci anni a rimontare a cavallo, poi, una volta riabituato, sono riuscito a prendere la patente di monta storica, intanto che preparavo tutte le manovre di Jean, ma non giostro più. Lo lascio ai giovani in cerca di gloria e mance.
Con il mare e le sue creature, invece, c’è un rapporto diverso, un rispetto profondo misto a una giusta dose di timore; anche se in realtà apprezzo di più la montagna, le sue alture. Ideali per un castello! Quando ero un bambino avevamo una casa sulla riviera di ponente ligure, in cui passavo tutte le estati e alcuni inverni. Tra i quattro e i cinque anni mio padre mi portò a vedere il museo oceanografico, a Monaco, che distava un paio d’ore da casa. Già avevo visto, su una videocassetta rimaneggiata e censurata da lui, il film “Lo Squalo” e in una delle vasche dell’acquario del museo c’era un piccolo squaletto, sarà stato un metro al massimo, ma era uno squalo vero, come quello del film! Il compleanno dopo, mio padre mi regalò un libro intitolato “Squali”, con una dedica stupenda: “Dal tuo vecchio e dal mare”. Mia madre è una biologa, ha fatto per quasi tutta la vita l’insegnante alle scuole superiori, ma io sono cresciuto dentro gli istituti biologici dell’università di Modena quando ancora lì lavorava. Da quel film, quello squaletto, quel libro, e dalla mia infanzia tra i musei scientifici, decisi che avrei studiato gli squali. L’ho poi fatto. Accorpando i vari periodi d’imbarco, ho passato più di un anno e mezzo della mia vita in alto mare e in mare oceano; l’ho vissuto in tutte le sue forme e ne ho esplorato gli abissi.
Ma come detto, volente o nolente, la mia vita è dedicata alle lame. Ho sempre detto a mia moglie che loro sono le mie ’spose’ e lei solo una bellissima amante! Vedi quelle spade? Sono delle Strisce barocche a foggia spagnola, e potrei infilzarti facilmente, se volessi… Ma non preoccuparti, ah, ah, ah! Dato che tu non sei uno spadaccino, e io sono un maestro, il codice cavalleresco m’impedisce di sfidarti a duello, a meno che non si tratti di un motivo gravissimo, come difendere l’onore di una figlia, per esempio…
L’uscita del Cavazzuti è inquietante. Ma poi mi ricordo che non ha figlie femmine, ma solo un maschietto che va in prima media, per cui sta sicuramente scherzando. Però è meglio cambiare argomento:
GG: Altri tuoi interessi: la fotografia, il cinema…
Una volta diventato fotografo professionista, il passo di unire fotografia e rappresentazione teatrale è stato breve. Una piccola rivisitazione della storia, potrei dire. Mi sono iscritto all’Accademia Nazionale del Cinema e dello Spettacolo e sono diventato direttore della fotografia e montatore. Qualche bel lavoro, anche premiato internazionalmente, l’ho fatto!
GG: Dicci di più sul mare: la vita del marinaio e le immersioni subacquee!
CC: Come ti ho detto il mio rapporto col mare è un rapporto strano. Passando le estati in Liguria, a Loano, luogo di una grande battaglia ai tempi della Campagna d’Italia, l’ho conosciuto presto. Costrinsi i miei genitori a portarmi a Montecarlo quasi ogni anno. Con gli studi da biologo marino ho imparato ad avere per lui rispetto e reverenza. Nelle mie navigazioni ho avuto modo di vederlo al largo, quando la terra più vicina è a giorni di viaggio e dovunque si posi lo sguardo ci sono solo onde e vento. Ho imparato i suoi ritmi, come e da dove nascono le correnti e l’ho visto infuriato con onde più alte della nave, ed era una nave davvero grossa! Quella volta dormivo con il giubbotto salvagente addosso, ma non per paura di annegare, quanto perché con quel mare a forza nove cadevo dalla cuccetta spesso e l’imbottitura mi salvava la schiena. Ho imparato quanto sia bello e pericoloso, specialmente la notte, se è senza luna o il cielo è coperto, al largo, quando tra aria e acqua vi è solo una sottilissima linea che divide il nero dal nero. In alternativa alle torri, vivrei in mare aperto su un veliero. Mi affascinano le sue creature e a quanto pare io piaccio loro visto che un paio hanno tentato di mangiarmi lasciandomi delle belle cicatrici! Una murena mi addentò sul braccio destro e un calamaro gigante mi afferrò con le sue ventose uncinate dandomi un morso sulle tibie. Non parlo poi dei delfini: erotomani, tossici, aggressivi! Le immersioni sono sempre state un piacere voyeuristico oltre che una necessità per gli studi. Andare in un posto che non sarà mai tuo, di soppiatto, a spiarne gli abitanti, prendere nota delle loro abitudini, guardarli intanto che si accoppiano. Detta così sembra l’inizio di un giallo ben scritto o di un romanzo pruriginoso.
GG: E le rievocazioni storiche in costume?
La seconda necessità è quella di avere un posto in cui provare ciò che studio da anni. Come potrei applicare i giochi degli antichi maestri se non vestendo i loro panni e brandendo le loro armi? In questi eventi ci sono altri studiosi, alcuni anche molto validi, e ci si confronta attorno a un tavolo o dentro una lizza, armi alla mano.
Iniziai nel millennio scorso quando ebbe natale la mia avventura nella scherma storica. Prima fui uno dei mercenari di Carlo V in discesa verso la Nuova Babilonia, poi un armato della granduchessa Matilde, dopo ancora un cavaliere ospitaliere nelle terre normanne di Sicilia ai tempi dello Stupor Mundi, ancora poi un cavalleggero dell’imperatore Napoleone ed ora sono un capitano dei berrovieri del Frignano a cavallo del XIV secolo. Sono tante vite da vivere, da studiare e fare proprie.
GG: Ma insomma, quante vite ha vissuto Carlo Cavazzuti? Ora mi dirai che sai anche pilotare un aeroplano, ah, ah, ah!
CC: Eh… sì. Ho pilotato tutto quello che può volare, a parte una mongolfiera e un dirigibile, prima ancora di avere l’età di prendere la patente per la macchina. Per il pallone dei fratelli Montgolfier conto di risolvere nel giro di questa settimana; per il dirigibile, dopo l’Hindenburg, la vedo più ostica, ma non dispero.
Quante vite? Se togliamo quelle dei personaggi che interpretai sul palco e quelli delle epoche passate che ricostruisco, non sono comunque poche. Carlo studente, Carlo aviatore, Carlo pescecanologo, Carlo attore, regista e tecnico teatrale, Carlo fotografo e montatore, Carlo maestro e arbitro di scherma... E, da una decina di anni, Carlo autore letterario. Non sono poche davvero. adesso che ci penso. Sarà per questo che mi sento vecchio come se fossi nato nel X secolo?
GG: Sei giovane, hai ancora molte vite diverse davanti. E ora passiamo a La Ragazza della musica: che ne dici, è un romanzo sull’inconsapevolezza emotiva?
GG: Cosa leggevi, da bambino? E da ragazzo? Cosa ti piace leggere da adulto? E quali autori consideri tuoi maestri?
CC: Ho iniziato a leggere qualcosa di diverso dai Peanuts e le Sturmtruppen che ero ormai grandicello. In un’altra epoca avrei già potuto essere considerato maggiorenne e avere figli, anche se adesso è l’età dei primi anni delle superiori. Iniziai con “Il prometeo moderno” della Shelley, letto in una notte, poi 1984, “Il deserto dei Tartari”, “L’ultima spiaggia”, “La nube purpurea”. Questi sono stati i primi cinque libri che ho letto, tutti in meno di un mese. Fui da subito un lettore vorace; inizialmente attingevo solo ai volumi della fornitissima biblioteca di casa, ma finiti di leggere quelli passai a comprarli in libreria. Leggevo e leggo di tutto tranne gli “Strappa Corsetti”, quelli non li reggo proprio. Adesso, più adulto, ho iniziato a selezionare un poco di più: storici, fantascienza, horror, saggistica storica di epoche varie e un sacco di roba vecchia, ma se trovo qualcosa che mi incuriosisce non bado troppo al genere.
Per preparare i miei romanzi studio molto sulle fonti dirette, se posso addirittura nella lingua originale, quando trovo qualcosa di diverso dalle cronache notarili o di storici coevi al periodo che sto studiando. Mi diverto un mondo a leggere le saghe norrene, i romanzi medioevali in provenzale, le novelle settecentesche. Adesso sto leggendo un poema in protofrancese fatto scrivere da William the Young per elogiare la vita di suo padre William Marshall, il cavaliere perfetto. Non penso di avere dei propri maestri di letteratura, ho più dei punti di riferimento, in particolare i Dumas. Ci sono autori che leggo più volentieri di altri, ma davvero non li definirei maestri.
GG: Hai un lettore ideale? Qualcuno che immagini leggere le pagine che scrivi, proprio mentre le scrivi?
CC: Io. Tolto me medesimo l’ho avuto solo per “La ragazza della musica”. Avrei voluto finisse nelle mani di un ragazzo o una ragazza coetaneo della protagonista, un insegnante delle scuole superiori o un genitore di questi studenti. Lo avevo pensato proprio per loro, per dare il massimo della sospensione dell’incredulità e metterli in una situazione che possono conoscere molto da vicino o che addirittura li vede coinvolti. Logico è che se uno dei mie altri romanzi finisse nelle mani di un appassionato di storia, o di uno storico, questi ne potrebbe trarre un gran gusto più di coloro che ignorano i fatti del passato, ma non scrivo se non per avere qualcosa che vorrei leggere e non trovo sugli scaffali.
GG: Sei passato dai campi di battaglia napoleonici, con Jean. Ti sei trovato bene laggiù?
GG: Ci sei riuscito certamente. Adesso, invece, con Le rune di Leif, sei andato per mare e in battaglia con i vichinghi. Cosa ci dici dei Predoni del Nord del tuo ultimo libro?
I norreni sono un popolo che amo e che ho amato molto, ne ho apprezzato sin da ragazzino tutta la mitologia. Erano all’avanguardia in moltissime questioni. Basti pensare al grande ruolo della donna nella vita comunitaria: ce n’erano che svolgevano il lavoro di ambasciatrici, politiche, giudici, del tutto indipendenti dai parenti. In realtà non erano solo i predoni che la bassa storia riporta al pubblico, e con questo libro ho provato a mostrarlo ai lettori. Ho dovuto studiarmi l’alfabeto runico e il suo utilizzo divinatorio, altra cosa assai complessa e articolata di quei popoli. E non avevano gli emi con le corna.
GG: Buon per loro! Altre avventure in vista? Nuove zone ideali della vita dove piantare la tua prossima bandierina?
CC: Come ben vedi sono abbastanza avvezzo a parlare, e ora ho trovato un modo di tediare con le mie parole anche coloro che per nascita o disgrazia non possono udirle. È da novembre scorso che sto studiando la LIS: Lingua dei Segni Italiana. Conto in un anno abbondate di poter accreditarmi come assistente alla comunicazione e tornare in classe con i ragazzi non udenti. Un giorno, in una delle mie vite, come dici tu, ero in classe, in assistenza ai ragazzi con problemi di tipo DSA, e a fianco a me si trovava una donna che vedevo giocare con le mani assieme a un ragazzino. Parlavano in silenzio. Ne rimasi affascinato; qualcosa me lo feci spiegare da lei, e solo anni dopo, complice questo nigro morbo, ho avuto la possibilità di affrontare un corso professionalizzante. Adesso riesco a sostenere una conversazione, raccontare una piccola favola, ma ho ancora tanta strada da percorrere.
GG: I prossimi romanzi?
CC: Di finiti ce ne sono già tre nelle mani della mia agente Laura Montuoro. Il primo è un noir ambientato ai giorni attuali a Modena. Segue uno storico che riporterà il lettore lungo tutta la discesa dei lanzichenecchi del Frundsberg sino a Roma e infine un romanzo di avvenuta sul mare verso il polo nord. Questo, l’ultimo scritto, è qualcosa che dovevo al mio vecchio e al mare. Ci sarebbe anche, scritta a quattro mani, una trilogia di gialli ambientati nella prima metà del 1700 tra Nouvelle Orleans, Martinica, Guadalupa e Parigi, ma è davvero molto indietro nella stesura: capitolo quattro del primo dei tre libri.
Non mi dispiacerebbe affrontare l’horror e la fantascienza, che mi piace leggere, ma non sono certo siano nella mia penna. Che tra l’altro non è d’oca, ma di pavone…
Cavazzuti si abbandona sullo schienale della poltrona, con gli stivali appoggiati sulla scrivania.
“Hai già deciso come mi stroncherai, anche stavolta?” dice.
“Eh?”
Lui si alza e stacca dal muro una delle spade.
“Tieni, impugnala, agitala in aria: è una bella sensazione. Se non la conosci devi provare.”
Prendo l’arma e faccio come dice, e in effetti la lama vibra e taglia l’aria che è una bellezza, facendo un rumore che richiama alla memoria i vecchi film di cappa e spada.
“Ehi, è bello!”
“Vero, sì?”
Cavazzuti avanza in mezzo alla stanza e fa ronzare l’altra lama nell’aria, ma con la grazia di un maestro d’armi: in mano a lui la spada canta davvero.
“Così l’introduzione di Jean è pesante e antiquata, eh?” dice.
“Come?”
“Sto solo citando la tua recensione.”
“Eh? Ah, sì… Beh, un po’ pesante… Sì, forse… Ma poi nel proseguire diventa più leggero…”
“Sì?” fa lui. I suoi gesti ora sono più potenti e un po’ minacciosi. Meno male che ha detto che non può sfidare a duello uno come me, se non per difendere l’onore di una figlia, che, lo ripeto tra me e me per tranquillizzarmi: lui non ha… Sennò un po’ di paura me la farebbe.
“Un bignami di storia napoleonica…” recita ancora Cavazzuti. “Mi domando cos’hai contro la storia napoleonica…”
Deglutisco:
“Io? Niente, ti pare? Io l’adoro, la storia napoleonica…”
“E La Ragazza della musica? Cos’è che hai scritto? Cavazzuti non rinuncia a chiedere al lettore qualche sacrificio… Come se leggere parole scritte con diversi colori fosse un gran sacrificio anziché un’opportunità originale! Sei un bel po’ pigro, come lettore, lo sai?”
“Eh… Beh, sì, hai ragione. Ma vedi, io…”
“E Le Rune di Leif? Com’era? Ah, sì: Per un breve istante al sorger dell’alba il libro assume sfumature fantasy… Che c’è? Hai deciso di rovinarmi, raccontando alla gente che il romanzo è meno fantasy di quanto pensano?”
“Beh, ecco, non esageriamo: le mie recensioni non sono poi così male. Io ho solo…”
“Sai che c’è? Tu non hai idea di quanta fatica costi documentarsi accuratamente per realizzare un vero romanzo storico. È un’operazione lunga, e molto difficile. Ogni pagina che scrivo, che tu poi disonori con tanta facilità, io la creo con impegno e sacrificio. Anzi, la partorisco.”
“Eh?”
“Sì, ogni pagina che scrivo, per me, è mia figlia!”
Ora, non mi occorre usare le mie abilità speciali di matematico per fare uno più uno: disonore, figlia…
Sorrido, ma arretro verso la porta. Lentamente, molto lentamente…
“Difenditi, fellone!”
Cavazzuti scatta in avanti. Indietreggiando alla cieca ho sbagliato strada e ora sono con le spalle al muro, anzi alla libreria. Punto la spada davanti a me per cercare di tenerlo a distanza. Lui ha un braccio arcuato a lato della testa e con l’altro alza e abbassa elegantemente la spada con aria di sufficienza. Tocca appena la mia spada e la sposta di qua e di là, come vuole: è come se io non avessi niente in mano. In pochi secondi la mia camicia è ridotta a brandelli. È chiaro che sta giocando con me come il gatto col topo: non posso far nulla per fermarlo.
“E ora… Cala il sipario su un pessimo critico. Ho subito troppo a lungo il vostro concetto dell’onore, ora voi subirete il mio!” mormora severo.
“Sei… Sei molto bravo con la spada,” gli ribatto. “Ma… Ma scommetto che non sai tagliare le candele con un colpo solo, senza far cadere il candelabro, come Scaramouche!”
In realtà non ricordo se era davvero Scaramouche, oppure Don Juan, oppure Zorro, a farlo, in un vecchio film, ma indico il grosso candelabro che sta poggiato su una cassapanca. È una mossa disperata… Eppure funziona!
“Certo che lo so fare!” dice lui. La scenetta del candelabro per Cavazzuti è come Ammazza la vecchia per Roger Rabbit: non può resistere. “Guarda qui!”
Ma io non seguo il suo consiglio. Mentre lui mette in atto la dimostrazione, io approfitto della sua momentanea distrazione per girare sui tacchi e imboccare la porta, stavolta con precisone. Mi fiondo giù per le scale.
“Dove scappi, canaglia?”
Cavazzuti mi è già addosso, e… Non so se è per tentare di sfuggirgli, o perché, prima di morire, voglio cogliere l’unica occasione della mia vita di provare a imitare Errol Flynn… ma infilo la spada in un pesante tendaggio che arriva fino a terra, mi ci lancio sopra e mi afferro con tutto il peso. La spada taglia la tenda a metà, e io scendo dolcemente verso terra… Finché non s’impunta da qualche parte, restando bloccata lassù, e io volo giù da un’altezza di tre metri. Questo ad Errol Flynn non succedeva. Atterro a quattro zampe e rotolo, dolorante, fino al centro della sala grande.
Mi rialzo con l’agilità del sergente Garcia, ma Cavazzuti, che ha scelto la via delle scale, meno rapida ma più sicura, ancora una volta mi ha già raggiunto. Ma almeno, chissà come, ha perso anche lui la spada.
Non faccio in tempo a rallegrarmene che lui ha già staccato dal muro una specie di lancia lunga due metri, con l’estremità a martello.
“’Azz…” mormoro.
“Hai detto bene, ribaldo! Questa è un’azza rinascimentale. Ideale per fare a pezzi la gente!”
Ammazza! Pure l’azza adesso! Stacco dal muro il primo oggetto che trovo: è uno scudo tondo di legno, con al centro un umbone decorato. Appropriato, penso. Lo stringo forte con le mani mentre Cavazzuti parte per il primo attacco.
La botta è durissima: a momenti mi spacca le mani e le braccia, e lo scudo vola via. È la fine. Dite a mia moglie che l’amo, e a mio cugino che nel 1976 la bicicletta verde gliel’ho sfasciata io, ma è stato un incidente.
Plin-pli-pli-plin-plim!
Un ben noto jingle spezza completamente il climax. Carlo poggia l’azza e tira fuori a fatica il suo smartphone da una tasca strettissima dei pantaloni. Gli rivolgo uno sguardo di rimprovero. Lui alza una mano per scusarsi, e dice:
“Scusa, scusa… Faccio in un attimo.”
Io sto lì ad aspettare, con le mani sui fianchi, con aria scocciata.
“Sì? Sì, certo. Mercoledì? No, mercoledì ho il dentista… Venerdì? Sì, venerdì va bene. Alle diciassette, ok? Va bene, grazie. Allora siamo d’accordo. Ciao… Sì, ciao. Ecco fatto: ho fatto in fretta o no?”
“Sì, però così… Col cellulare…” dico, disarmato, allargando le braccia.
“Hai, ragione, ho dimenticato di spegnerlo, scusa… Ecco, ora l’ho silenziato. Fatto! Dove eravamo rimasti?”
Oh, cazzo. Eravamo rimasti a lui con l’azza! Mi guardo intorno e afferro un altro oggetto che è poggiato sul muro. Sembra un enorme osso.
“E tu credi che una costola di balena possa fermarmi?” fa lui.
“Beh, non sapevo cos’è, ma l’idea era quella, in effetti…”
“Non essere ridicolo!” dice, roteando l’azza mortale.
L’osso di balena lo afferro per un’estremità e glielo tiro sugli stinchi con tutta la forza che trovo.
“Ahia! Ma così non vale! Non è leale!” fa lui mollando l’azza per massaggiarsi.
Leale o non leale, c’è la finestra accanto a me. Stacco dalla parete un corpetto di metallo, parte di non so che armatura. Pesa! Lo lancio contro i riquadri di vetro, mandandoli in frantumi con tutta l’intelaiatura. Poi mi butto di sotto. Per fortuna siamo al piano terra.
Ora sono fuori, ma non sono in strada: mi trovo sul retro, su un terreno brullo. Devo fare mezzo giro intorno alla torre, se voglio tornare lì dove ho parcheggiato l’auto. Corro. Ed ecco comparire di nuovo il Cavazzuti, stavolta è a cavallo, su un bellissimo frisone nero, e brandisce una spada da arcione, larga e appuntita: quella dei cavalieri medievali.
“Dove vai? Non puoi sfuggirmi!”
Per fortuna vedo uno steccato davanti a me, alto circa un metro e mezzo. Devo arrivarci prima di lui: posso scavalcarlo facilmente, con la rincorsa, se prendo bene il tempo.
Hop! Ricado dall’altra parte! Olio cuore docet! Atterro nel campo e continuo a correre. Forse sono in salvo!
“Illuso!” dice una voce. “Hai dimenticato che sono un cavaliere provetto? Forza Golia!”
Il cavallo vola alto sopra lo steccato.
“Ma non c’è niente che tu non sappia fare, maledizione?” ringhio a mezza bocca mentre stringo i denti per la volata finale verso l’auto. Ma è una chimera: il cavaliere è ormai a un passo, e la sua spada sta già roteando in aria. Stavolta è davvero la fine.
Plin-pli-pli-plin-plim!
“Eh, no!” ansimo.
“Scusa, scusa…” dice Carlo, fermando bruscamente il cavallo. “Pensavo di averlo silenziato. Ma ora lo spengo proprio…”
“Scusami tanto se non ti aspetto, stavolta,” grido, mentre sprinto come Marcell Jacobs verso la macchina. “Ma si è fatta una certa!”
“No! Aspetta! Faccio subito!”
“Scusa, ma devo proprio andare!”
Per fortuna sono abitudinario, e indosso sempre gli stessi jeans: so in quale tasca stanno le chiavi. E grazie al cielo la Cytroen si avvia subito. Addio Bastiglia! Tanti saluti a Carlo Cavazzuti! Al contrario di lui, io i romanzi storici preferisco leggerli, piuttosto che viverli di persona!
eh eh eh - spettacolo :-)
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