Con la partecipazione della più celebre coppia di Hollywood in veste di mascotte.

mercoledì 1 maggio 2019

Cemento armato

Cemento armato è un nuovo racconto per voi, tratto da una mia raccolta inedita, anzi... inesistente. Comunque sia, io ve lo regalo, e voi, se volete, regalatemi un commento.



Gianluca Gemelli

CEMENTO ARMATO



Continuiamo ad avanzare lentamente, armi in pugno, guardandoci attorno circospetti. Ma da più di mezzora non c’è anima viva, neanche le cornacchie. Niente spazzatura in giro. Non una carcassa d’auto. Appena un’ora fa eravamo sfilati accanto a una vera processione di auto sventrate, prive di ruote, sedili e motori, abbandonate a lato della strada. Ma qui niente. Anche le scritte sui muri e i disegni sconci dei writers si sono via via diradati e ormai sono scomparsi da un pezzo.
Ho quasi l’impressione che dove siamo ora non sia mai arrivato l’uomo: come se le gru delle imprese edili avessero lavorato da sole, a costruire questo obbrobrio. C’è solo cemento e cemento: dove camminiamo, a destra e a sinistra, solo cemento. Più qualche cespuglio secco che spunta, lì dove si è infiltrata un po’ di terra. Il sole picchia forte. Fa un caldo pazzesco.
Nessuno di noi è mai stato quaggiù. Le precedenti retate non si sono spinte fin qui. Ma oggi saremo almeno trecento, tra agenti e altre forze dell’ordine, in quello che vorrebbe essere un vero e proprio rastrellamento militare. Non è un segreto che in questo deserto di cemento alla periferia della città, grande come un’intera altra città, i boss delle cosche Farace e Nargiso nascondono laboratori per tagliare la droga, depositi di armi, persone rapite, latitanti... E alla mia squadra − in tutto siamo in dodici − è toccata questa zona. Solo un quadratino nella mappa: non ci sono strade, non ci sono regole, da queste parti. Perlustrare e poi proseguire per il punto di raccolta.
Questa mostruosità, questo labirinto grigio che forse non basteranno nemmeno le centinaia di poliziotti armati fino ai denti che sono qui oggi, a bonificare, avrebbe dovuto essere il quartiere di una grande esposizione. Ma vent’anni fa fu scelta, probabilmente a forza di tangenti, una zona priva di collegamenti stradali, che poi, naturalmente, non furono mai realizzati. Ai costruttori quel che interessava era solo fare queste inutili colate di cemento, per realizzare in fretta e furia i loro enormi guadagni, prima che i magistrati bloccassero per sempre tutti i lavori, che fossero legali o no.
Il palazzo alla nostra sinistra è un cubo privo di  finestre. Il piazzale ha la forma, sgradevole, di un trapezio. In fondo c’è una gigantesca costruzione che sembra quasi un’antica rovina, ma in realtà è solo lo scheletro di cemento armato di un enorme centro commerciale mai completato. Si vedono i pilastri, i pavimenti e le scale nude che collegano i piani.
− Lì! − indica il soprintendente. L’ho conosciuto oggi, non mi ricordo come si chiama. È di un’altra provincia. Abbiamo molti rinforzi che vengono da fuori, oggi. Questa è un’operazione grande, che probabilmente passerà alla storia. Si dice che una squadra, al margine sud, abbia già preso un pezzo grosso, forse Ciccio Farace in persona, e che un’altra abbia trovato un camion pieno di kalashnikov e lanciarazzi anticarro.
− Dove, soprintendente? − gli domando piano. − Non c’è niente lì. I piani sono vuoti, sono scoperti: mancano le pareti...
− Di sotto! Nel garage!
Ha ragione. Non c’è nessuna strada, ma alla base del mostro di cemento davanti a noi c’è una rampa di accesso che scende fino a un’apertura rettangolare e buia. Lì sotto, certamente non ci piove dentro. E gli elicotteri della polizia non possono guardare.
Il grande spazio sotterraneo è vuoto. I lucernari fendono il buio con lame di luce solare. Scalini di cemento, sia a destra che a sinistra, scendono negli scantinati.
− Voi due a scendete lì a destra, − indica me e Marco Doci, − voi altri due lì a sinistra. Noi proseguiamo per di là. Ci ritroviamo tutti dall’altra parte. Ragazzi, ricordatevi dove siamo. Chiunque incontriamo bisogna dar per scontato che è armato e pericoloso. Perciò qualsiasi cosa succede... sparate. Sparate senza preoccuparvi di protocolli o denunce. Ci penseremo noi a pararci il culo a vicenda.
Annuiamo. Sapevamo che saremmo stati divisi in coppie durante la perlustrazione. Io e Marco iniziamo a scendere, io davanti e lui dietro. Sono io il più anziano, comando io: ho io la pistola e la ricetrasmittente, e lui mi segue giù per le strette scale. Preferisco averlo al mio fianco, piuttosto che dietro con la mitraglietta spianata. Diventa più buio. I lucernari sono pochi e non ci sono lampade, quaggiù, anzi non c’è nemmeno la corrente. Le scale continuano a scendere per un’eternità. Ora però c’è un corridoio. Distinguo delle porte di ferro. Devono essere le cantine.
− Che facciamo? − chiede Marco. Lo zittisco con un dito: mi è sembrato di sentire qualcosa. Restiamo in silenzio, in ascolto. Sì! C’è qualcuno, qui: si sentono dei lamenti.
Camminiamo piano. C’è silenzio, ora. Quando siamo davanti a una delle porte, sentiamo di nuovo qualcosa. Sì, c’è proprio qualcuno che piange, lì dentro. Forse qualcuno dei rapiti. Prendo la ricetrasmittente, ma il display mi informa che non posso contattare il soprintendente. Il cemento fa da schermo. Cerco di aprire la porta. La maniglia gira. La porta si apre. È pesante, vibra un po’ per l’attrito, ma i cardini non fanno troppo rumore. Entriamo. Aspettiamo un po’ per abituarci al buio. Non osiamo accendere le torce per non rivelare la nostra presenza. Ora distinguiamo un corridoio cieco. Nient’altro. Eppure sentiamo ancora dei gemiti. Com’è possibile? Ecco: c’è una scaletta sulla destra che va ancora più giù. Scendiamo: la porticina in fondo alle scale ha delle feritoie orizzontali da cui filtra la luce dell’esterno. Siamo stupiti: siamo scesi chissà quanto sottoterra, eppure sembra che stiamo per sbucare all’aperto!
Apro la porticina. In effetti siamo fuori, in un piccolo cortile. Guardare in su, verso un lontanissimo quadratino di cielo è sgradevole: le pareti interne del palazzo sembrano altissime, quaggiù dove siamo. Più che in un cortile interno, siamo in fondo a un pozzo profondissimo.
Sul pavimento davanti a noi ci sono degli elementi piatti e spioventi, che coprono dei lucernari. C’è un ambiente, da qualche parte lì sotto, ancora più in basso di noi, ed è da lì che provengono i gemiti che sentiamo.
− Dove sarà l’entrata?
Marco non può darmi una risposta. I gemiti continuano. C’è qualcuno che soffre, laggiù.
− Dobbiamo fare qualcosa. Dammi una mano! − dico. Marco mi aiuta a smuovere e a sollevare lo spiovente. È di quel materiale che ho visto tante volte nelle discariche abusive. Non mi ricordo come si chiama, ma è una roba piena zeppa di amianto. Tiriamo. Tiriamo. Alla fine cede e viene via.
Abbiamo tolto un pezzo di copertura largo come un cartellone pubblicitario, e non riusciamo a credere ai nostri occhi. C’è una stanza lì sotto, ed è piena di gente. Sono tutti seduti gli uni accanto agli altri. Sono uomini, donne e bambini, tutti nudi, magri, sporchi, neri. Capelli e barbe sono lunghi fin quasi a terra. Alcuni bambini piangono. Sono loro che abbiamo sentito. Le teste di tutte queste persone, e sembrano centinaia, sono a un pelo dal pavimento del cortile: il soffitto è talmente basso che non possono alzarsi in piedi. Ci guardano spaventati, socchiudendo gli occhi: la debole luce solare che arriva quaggiù è abbagliante per loro.
Io e Marco siamo senza parole. Torno a guardare in basso e altri particolari si aggiungono al quadro. Sono tutti seduti a dei lunghi tavoli da lavoro: ci sono stoffe, rettangoli di pelle, rotoli di filo, tasche e maniche di vestiti ancora da completare... e centinaia di macchine da cucire di metallo annerito, come quella che usava la mia bisnonna. È un laboratorio clandestino: una sartoria. E quelli sono... gli schiavi. Nessuno di loro parla. I bambini continuano a piangere, piano.
− Polizia! − dico, alla fine. − Venite fuori! Siete liberi adesso!
Mi guardano. Nessuno si muove.
− Venite con noi! Vi portiamo fuori di qui! Tornerete dalle vostre famiglie!
Nessuno risponde. Un vecchio ha ripreso far girare il volano della macchina per cucire. Sta cucendo un portafogli di cuoio.
− Forza! Venite fuori! Siete liberi! − Sto fissando gli occhi sulla ragazza sotto di me. È magra come uno scheletro e nera come un tizzone, ma distinguo il colore dei suoi occhi. Sono azzurri.
− Venite fuori, ho detto!
− Non... Non possiamo, − mormora lei. Sembra aver paura anche della propria voce.
− Ma certo che potete. Avanti tu, alzati!
La prendo per un braccio e la tiro su.
− No, no! − fa lei, cercando di resistere. − No! Ho paura!
− Non c’è niente da aver paura! Ci sono io! − rispondo. Sorrido. Cerco di rassicurarla. Tiro più forte. È leggera come uno scricciolo. In un attimo ce l’ho tra le braccia. Mi guarda. Guarda il cielo.
Succede tutto in un attimo: la ragazza grida, avvampa di fiamme blu e gialle, si carbonizza, si polverizza. Non ho più niente tra le braccia. Davanti a me c’è solo un mucchio di cenere fumante. Mi sono tirato indietro urlando, ma me ne è finita un po’ sulle scarpe. Mi sono scottato un po’ le mani. Me le guardo e vedo che  ho della fuliggine sui palmi. Mi ripulisco sui pantaloni. Guardo Marco. Trema. Ha visto tutto anche lui. Ma lo so anche da solo che non ho sognato.
La porta del cortile si apre. Arrivano di corsa due uomini. Uno ha un completo nero, con tanto di cravatta e cappello, e occhiali scuri: sembra uno dei Blues Brothers. L’altro è poco più di un ragazzo, ha i capelli rasati a strisce sulle tempie, indossa pantaloni corti e una maglietta attillata sul corpo magro e palestrato, e ha le braccia piene di tatuaggi; somiglia a un tronista televisivo, oppure a un calciatore di serie A. Mi basta un attimo per mettere da parte l’orrore e lo sbigottimento e ricordarmi le parole del soprintendente Fierro − ecco come si chiama: me lo sono ricordato − e aprire il fuoco con la Beretta. Marco mi segue a ruota e spara due raffiche di mitraglietta. I due dovrebbero essere crivellati, morti, ridotti a colabrodi, invece non solo restano in piedi, ma reagiscono come se gli avessimo sparato contro delle mosche anziché delle pallottole. Io e Marco restiamo a guardare, increduli.
Il giovane apre un coltello a serramanico e inizia tranquillamente a cavarsi tre o quattro pallottole − ma che fine hanno fatto tutte le altre? − che gli spuntano dal petto e dalle braccia, conficcate a metà. Niente sangue. L’altro si rivolge a me:
− Non potete aiutare queste persone. Nessuno può aiutarle.
Gli sparo ancora. A bruciapelo, sul volto. Un colpo, Due colpi. Tre colpi. Niente: le pallottole sembrano dissolversi. Non so più che fare.
− Amico, non credo che tu abbia a capito con chi hai a che fare e che posto è questo!
Si toglie gli occhiali. I suoi occhi sono braci rosse ardenti. Si solleva il cappello quel tanto che mi permette di intravedere un paio di magnifiche corna arcuate, e poi lo rimette al suo posto. Ride.

2 commenti:

  1. E'fatto bene e è horror ...OK...

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  2. Che poi, a parte i non morti, realtà infernali simili esistono davvero... è forse quello il vero orrore.

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