Con la partecipazione della più celebre coppia di Hollywood in veste di mascotte.

sabato 7 settembre 2019

Pomeriggio a Rocky Beach: intervista a Marco Giorgini


Marco Giorgini versione intellettuale
Vado in California… a intervistare per voi un autore italiano! E se già questa non fosse una cosa abbastanza assurda, ci incontreremo in una località che non si trova sulle mappe, ma solo tra le pagine dei libri di Robert Arthur... Ma bando a ogni incredulità e andiamo conoscere il vulcanico Marco Giorgini. Faremo insieme una cavalcata - anzi no, un giro in bici - tra letteratura per ragazzi, fumetti, e videogiochi! 


Pomeriggio a Rocky Beach


Incredibile: davanti a me c'è l'Oceano Pacifico e ho i piedi sulla sabbia di Topanga Beach. Certo devo essere ridicolo, impalato sotto l’ombra striminzita dell'asta della bandiera del vicino club nautico, con i jeans arrotolati e le scarpe in mano. Sarei tentato di andarmi a rinfrescare i piedi in acqua, come faccio a Ostia, nelle pause dei lavori della commissione d'esame, quando mi chiamano per gli esami maturità. Ma non è il caso: qui non siamo a Ostia, le onde sono alte e non potrei bagnarmi i piedi senza finire completamente a mollo. E poi quei tizi tutti muscoli che si aggirano sulla spiaggia, portando sotto il braccio tavole da surf grandi come chiatte fluviali, probabilmente mi guarderebbero storto. Sono un pesce fuor d'acqua, letteralmente. Ma, ragazzi, sono in California! 

Cosa ci faccio qui? Ho un appuntamento. Un appuntamento con un tizio di Modena... Sì, lo so che è assurdo, ma vedete: sia io che Marco Giorgini ci troviamo contemporaneamente a Los Angeles, io per un congresso di matematici e lui per uno di sviluppatori di videogiochi, per cui quando ci siamo sentiti ci siamo detti che era il caso di cogliere l'occasione per incontrarci finalmente di persona. Sono anni che ci incrociamo virtualmente, tra commenti ai post, email e recensioni. Perciò eccomi qui a far contrasto in modo deprimente coi tipi da spiaggia californiani, e a sfidare la sabbia rovente.

Le spiagge della California sono nel mio immaginario da secoli... vabbé, da decenni. E anche se qui le cose non sono più come nei telefilm anni sessanta e settanta, se mai lo sono state, a tratti ho ugualmente la sensazione che se mi girassi potrei veder sfrecciare la batmobile sulla superstrada alla mie spalle. Il tassista non ha battuto ciglio quando gli ho chiesto di portarmi qui, anche se inizialmente mi sono confuso e gli ho detto Rocky Beach anziché Topanga Beach. E sono confuso tutt'ora.

- Signore!
Il più grassottello dei tre ragazzini in bici che si sono fermati accanto a me, e che cerco di ignorare da un po', mi rivolge la parola:
- Signore, ehi signore!
Mi giro dall'altra parte, ma lui insiste:
- Abbiamo notato che se ne sta qui fermo da un pezzo e non fa che guardarsi in giro. E' evidente che sta cercando qualcuno. E allora, noi...
- Shh! Andate via, per favore, voi tre non siete reali!
- Beh, credo che lei si sbagli, signore: siamo reali, e anche se siamo solo dei ragazzi, ci piace risolvere misteri e trovare persone e oggetti scomparsi. È quasi il nostro mestiere, ormai.
- Sì, Jupe, lo so, so tutto di voi, accidenti! Ma adesso lasciatemi in pace! Oddìo, mi sembra di impazzire!
- Non si sente bene, signore? - chiede il più minuto dei tre. Dentro di me so che si chiama Bob, anche se nessuno ci ha presentati.
- Io? Bene? No di certo! Ma magari non sono del tutto impazzito: sarà colpa del fuso orario... E poi qui c'è un sole pazzesco e io non ho il cappello, e... Ecco fatto: vedo i personaggi delle mie letture preferite, ai tempi della prima adolescenza, come se fossero veri. Ma voi non siete veri, per cui adesso lasciatemi in pace!
- Uff! - riprende Jupiter, - Quante storie! Noi volevamo solo aiutarla, ecco tutto. Il fatto è che a due o trecento metri da qui c'è un altro signore, che ha un aspetto e un atteggiamento molto simili al suo, e che sembra stia aspettando qualcuno anche lui. E allora ho pensato che...
- Davvero? Dove?
- Laggiù: dove c'è quel chiosco.
In effetti c'è un altro ometto, ora lo vedo, come me è nettamente inferiore alla media locale sia per statura che per tintarella. Sta in piedi all'ombra di una palma, a poche centinaia di metri, nella direzione indicata dal ragazzo. Come me sembra un pesce fuor d'acqua. Dev'essere Giorgini. Sì, è sicuramente lui.
- Ehi, hai ragione: è proprio la persona che stavo cercando. Grazie ragazzi!
- E' un piacere aiutare le...
- Sì, sì, ma ora sparite, per favore, eh? - dico incamminandomi.
- Le prometto che non la infastidiremo più, signore, ma prenda almeno il nostro biglietto da visita, qualora avesse bisogno dei servizi della nostra agenzia investigativa, noi siamo a disposizione.
- Sì, sì, grazie, grazie. Ma ora andate, ok?
I tre rimontano in bici e pedalano via, e io vado a raggiungere l'uomo che devo intervistare, anche se mi chiedo se non sia invece il caso di arrendermi all'evidenza e andare in ospedale, invece, visto che sto sognando a occhi aperti.

Marco Giorgini versione tipo da spiaggia
GG: Marco?

MG: Gianluca?

GG: E' un piacere incontrarti di persona, finalmente!

MG: Anche per me! Sai che ti facevo più alto?

In effetti Giorgini avrà almeno un centimetro più di me.

GG: Davvero? E tu sai che sembri più giovane, in foto?

MG: Beh... Sono più giovane, in foto!

GG: Vabbé. Eccoci qua…

MG: Strano, incontrarsi qui, vero?

GG: Paradossale, quasi! Però è anche un posto significativo per i fan dei Gialli dei Ragazzi, come noi, dato che per molti questo posto è stato d'ispirazione per Robert Arthur.

MG: Ed è davvero un posto strano... La realtà e la fantasia si mescolano: pensa che ho avuto l'impressione di vedere…

GG: Cosa? Anche tu?

MG: Anch'io? Anch'io cosa?

GG: Niente, niente... Dicevi che hai avuto l'impressione di vedere... Che cosa?

MG: No, niente, niente. Cose di nessuna importanza. Ma perché, anche tu hai visto qualcosa di strano?

GG: Io? No, no. Niente d'importante. Però, sai, com'è... Forse il caldo…

MG: Forse il jet-lag…

GG: Sì, l'avevo pensato anch'io…

MG: Vabbé, non pensiamoci più.

GG: Partiamo con l'intervista?

MG: Vai!

GG: Marco Giorgini, sviluppatore di software, autore di fumetti, romanzi e racconti, editore... Ho dimenticato qualcosa?

MG: Eh eh, in realtà qualcosina sì - ma già detto così sembra quasi che io sia un personaggio da Graphic Novel. Diciamo che nel limite delle mie capacità mi piace cercare di essere creativo e che io e te siamo fortunatamente cresciuti in un periodo in cui è iniziato ad essere più alla portata di tutti realizzare una parte dei propri sogni, perché la tecnologia ci aiuta non solo a realizzare le cose, ma anche a diffonderle, a farle conoscere. E quindi, beh, sì, se non si sta parlando troppo seriamente in effetti sono davvero anche un editore, e pure in qualche modo un autore, in un po’ di settori diversi.

GG: Insomma, ma cosa fai veramente per campare, e cosa invece per te è solo un hobby?

MG: Questa è una domanda semplice: per “campare” faccio programmi. E da più di venticinque anni che lavoro per una ditta, sempre la stessa, che si occupa di linguistica computazionale. 

GG: Cioè? Volevo dire... io chiaramente so cos’è la linguistica computazionale, ci mancherebbe, però giacché questa è una intervista, magari sarebbe carino se spiegassi tu un po’ meglio che cosa fai, no?

MG: Sicuro. Ed è una cosa più normale di quello che sembra. Quando qualcuno mi chiede di spiegare in cosa consiste il mio lavoro dico che faccio quasi il maestro elementare, perché insegno a leggere e a comprendere i testi – ma invece che a dei ragazzini lo insegno ai computer. Quando sono partito alla fine del secolo scorso (suona strano ma è così) questo tipo di attività era abbastanza di nicchia, ma al giorno d’oggi, anche se è svolto più comunemente con tecniche diverse da quelle che uso io, è diventata una cosa molto più comune per automatizzare processi quotidiani, e di conseguenza è diventata anche “importante”. Lo scopo del mio lavoro è fare in modo che un programma possa leggere dei testi (articoli, mail, chat, qualsiasi cosa sia scritta, magari anche questa intervista per dire) e possa permettere di estrarre informazioni, da usare per “rispondere” o per “classificare”, o per “elaborare” quanto letto in automatico.

GG: Ah. Sembra una cosa davvero noio... ehm, interessante, complimenti. Beh, però non sei qui per una cosa del genere, o avevo capito male? 

MG: No, infatti. Oltre alla linguistica computazionale, sempre nel campo del software, mi occupo di realizzare anche videogiochi e questa attività è una via di mezzo tra un lavoro e un hobby. Cioè anche questa, in modo molto meno ampio e regolare è una fonte di reddito, quindi più o meno un lavoro. Credo. Il resto delle cose che hai citato invece sono quasi tutte un hobby. Dal mio ruolo di editore (di una delle più antiche e-zine italiane e di una delle prime case editrici digitali italiane) a quello di autore di fumetti – più precisamente di strisce – e di autore di racconti, romanzi e anche di qualche sceneggiatura per cortometraggi. 

GG: Oggi tutti i ragazzi vorrebbero diventare creatori di videogiochi. Ma come si diventa creatore di videogiochi? E, soprattutto, fare i videogiochi, rende?

MG: Beh, io sono diventato un programmatore appunto perché volevo realizzare videogiochi – un desiderio (che si aggiungeva a quello di volere essere un giornalista e uno scrittore, oltre che un archeologo e un astronauta, come credo la maggior parte dei ragazzini della nostra generazione) nato in prima media – quando ho potuto provare per la prima volta un videogioco su un home computer, direi su un Atari di un amico di mio fratello. Negli anni ottanta e novanta diventare un programmatore di videogiochi era più semplice e più difficile allo stesso tempo. Più semplice perché i computer erano più limitati come risorse e molti giochi erano davvero realizzati da un singolo sviluppatore in alcuni mesi. Più difficile perché, soprattutto da noi, non c’erano praticamente libri sulla programmazione nelle librerie, gli strumenti per realizzare giochi erano rari, difficili da trovare e complicati da usare e, per finire, per l’eventuale distribuzione dovevi per forza passare per un produttore. Senza non avresti potuto farlo avere a nessuno senza portargli a mano una cassetta registrata. Diverso, per questi aspetti, è stato il periodo successivo, quando internet è iniziato ad entrare nelle case degli italiani - quando cioè potevi iniziare a trovare risorse e informazioni, e, volendo, provare canali di distribuzione autonomi (magari anche solo shareware, che comunque un po’ rendevano). 


Uno dei computer su cui ha lavorato Marco Giorgini da giovane?

GG: Ok... ma se ti chiedessi di passare dalla preistoria ai giorni nostri?

MG: Beh, oggi è decisamente più facile. Chiunque o quasi può realizzare un videogioco. Ci sono molti strumenti pensati apposta per creare videogames senza quasi neppure programmare. Chiaro, con strumenti semplificati si possono fare solo cose relativamente semplici, ma non è detto che non si possano comunque fare cose commercialmente interessanti anche così. E per chi invece sa programmare e vuole fare cose più complesse, gli strumenti a disposizione sono tantissimi sia per lo sviluppo sia per la distribuzione autonoma. Passare poi dall’autoproduzione a lavorare per una major il passaggio è complesso e non garantito, ma ci sono corsi e scuole anche nel nostro paese e conosco personalmente programmatori che dopo un percorso sono arrivati all’interno di team internazionali. C’è però un effetto collaterale. Sul discorso di quanto si può guadagnare come programmatore di videogiochi la risposta è la stessa (o quasi) che ti darei per la maggior parte delle attività creative: sì, puoi diventare ricco e molto, non c’è un limite. Autori singoli che hanno sfondato - cioè che sono diventati milionari in dollari, magari con un singolo titolo - ce ne sono. Ma si parla di casi rarissimi. La maggior parte degli sviluppatori di videogiochi indie (singoli o piccoli gruppi) è fortunata se riesce a prendere l’equivalente di uno stipendio modesto, e non è detto che riesca a mantenerlo a lungo. Paradossalmente ho guadagnato di più facendo giochi per terzi (o “vendendo” un gioco fatto da me a qualcuno che poi si è occupato della distribuzione) di quanto abbia fatto con la distribuzione diretta. Ma come dicevo questo non è il mio lavoro principale – lo sviluppo di giochi è una cosa che faccio saltuariamente e con limiti di tempo e risorse - e per questo l’aspetto di rientro economico non è stato un problema. 

GG: Quindi è una cosa che sconsigli?

MG: No, il contrario. Se uno ha voglia, tempo e costanza è un lavoro che consiglio assolutamente. Se si è un po’ fortunati si può avere successo e denaro, oppure è possibile essere notati e ricevere una buona offerta di lavoro da parte di qualche ditta interessante. Ma anche se non dovesse andare così, se si lavora con strumenti più complessi, con un linguaggio di programmazione intendo e non solo assemblando pezzetti, si farà una esperienza che potrà servire per entrare comunque nel mondo del software, magari in un settore diverso, divertendosi. Perché, come dicevi, tutti vogliono fare videogiochi.

GG: Ok, buono a sapersi. Cambiando discorso, passiamo magari a Marco Giorgini e i fumetti, che dici? Quali fumetti leggevi da piccolo? E quali soddisfazioni ti sei tolto, con Kurt Comics?









MG: Per i fumetti come per la letteratura sono sempre stato abbastanza onnivoro. Ho sempre letto (e leggo tuttora) Topolino, ma leggevo qualunque fumetto italiano mi capitasse per le mani (da Geppo a Zagor o Tex Willer) più qualcosa di quello che di straniero riuscissi a trovare (da Asterix o TinTin a Superman o Batman, passando per mille altri nomi, come Flash Gordon, Mandrake, The Spirit e altro). Non ho però mai seguito in modo continuo Marvel o DC (con la mia paghetta ci stava un solo fumetto a settimana – e per me quello era Topolino – e in biblioteca, contrariamente a quello che capita ora, di fumetti periodici non ne trovavo). Negli anni della scuola, complici, lo ammetto, i diari scolastici, sono poi stato folgorato da Charlie Brown e la sua banda. E il desiderio di realizzare strisce è sicuramente nato da quelle letture. Kurt, aspirante scrittore alle prese con le pene dell’editoria al tempo di internet, non è chiaramente Charlie Brown, ma è comunque un “perdente” in cui magari è possibile riconoscersi, almeno un po’. E grazie a Internet sono riuscito prima ad uscire dal mio sito e finire all’interno di altre pubblicazioni digitali, e poi ad avere alcune delle mie vignette stampate anche su carta, su fanzine,e un paio di volte pure su un mensile (di informatica) a tiratura nazionale. Devo ancora avere da qualche parte la ricevuta di pagamento per quelle 4 o 8 vignette. Quello è stato davvero una cosa per me davvero emozionante. So che è sciocco, ma quella decina di euro tecnicamente fanno di me un professionista, ridicolo che sia. Oppure no, non lo so. Ma sì quella minima cosa mi ha fatto davvero piacere.

GG: Passando dai fumetti alla letteratura, quali sono oggi le tue letture preferite?

MG: Come dicevo, leggo un po’ di tutto, a parte giusto la saggistica, ma da sempre prediligo la letteratura di genere e i miei generi preferiti sono la Fantascienza, l’Horror, i Thriller e i Gialli. Parlando di autori viventi sono un fan da acquisto compulsivo nell’istante dell’uscita dei libri di una decina di autori, tra cui Stephen King, Dean Koontz, Lee Child e di Tom Wood. Ma durante l’anno leggo sempre anche opere di autori che non seguo in modo costante, e non solo di autori italiani, americani o inglesi. Ah, parlando dell’Italia ho poi il piacere di conoscere (di persona o solo virtualmente) parecchi scrittori (chissà se ti fischiano le orecchie) e quindi una parte delle mie letture comprendono anche le loro opere, a volte anche in anteprima. 

GG: A proposito di autori italiani... recentemente, con Il mistero della statuetta egizia ti sei cimentato nel revival del Giallo dei Ragazzi. Quali obbiettivi ti ponevi? Che difficoltà hai incontrato? Quali autori ti hanno ispirato?

MG: Come anticipato, tra i miei sogni da bambino c’era quello di fare lo scrittore. E tenendo conto che i Gialli dei Ragazzi sono stati un elemento fondamentale per la mia passione per la lettura, il desiderio di scrivere qualcosa per ragazzi mi è sempre rimasto, anche se in realtà negli anni ho quasi sempre preferito scrivere racconti di fantascienza o horror, non pensati necessariamente per un pubblico giovane. Quando però ho deciso di provare a realizzare un romanzo “vero” (come dimensione, intendo), cercando un soggetto tra le tre tracce più ampie che avevo preparato negli ultimi anni ho deciso di scegliere quella che più era adatta a provare a ricalcare le modalità di quella collana. E nel trasformare una trama in un romanzo il mio obiettivo è stato quello di provare a scrivere qualcosa che mi sarebbe potenzialmente piaciuta se l’avessi trovata in quella stessa collana quando ero un ragazzino. Quindi ho cercato di impostare la scrittura più o meno con lo stile di quei libri, concedendomi solo la libertà di ambientarli in un posto reale che conoscevo bene – la mia città - e in un tempo “simile” anche se tecnicamente diverso. Mi spiego, gli anni ‘80 per me rappresentano il periodo dei giri in bici con gli amici, delle partire a pallone, eccetera. Un periodo simile a quello descritto nei Gialli dei Ragazzi che ho amato, anche se quelli in realtà parlavano di uno o due decenni precedenti. La difficoltà maggiore è stata quella di capire come rendere anche solo vagamente plausibile una storia con elementi apparentemente soprannaturali in una Modena di quegli anni. Volevo una storia alla Scooby-Doo, avevo la trama, ma cercare di non rendere irritantemente stupidi o naif i personaggi è stato complicato – e non spetta a me giudicare se ci sono o meno riuscito. Gli autori che mi hanno ispirato sono quelli dietro alle vicende de I Tre Investigatori – Robert Arthur in primis – e in misura minore l’autrice de La Banda dei Cinque. Chiaramente Hardy Boys e Nancy Drew sono personaggi che mi hanno colpito, ma i “miei” ragazzi volevo fossero meno in grado di fare quello che volevano. Volevo una banda di amici – alla Goonies – che dovessero lottare anche contro le normali strutture sociali (i genitori e gli adulti) e non solo contro i cattivi e i misteri della storia.

GG: I tuoi familiari leggono quel che scrivi? Hai un lettore ideale in mente, mentre scrivi?

MG: Mentre scrivo non faccio leggere nulla a nessuno fino a quando non ho finito. Ma dopo, sì, è mia moglie che si sacrifica. Lei ha letto la prima stesura del Mistero, come in passato era capitato per altri testi. È una lettrice forte, di romanzi di tutt’altro tipo, e quindi il suo giudizio è stato particolarmente spietato, ma davvero utile. Dopo di lei passare la bozza ad altri per un parere e un aiuto per la revisione è stata una passeggiata. Come dicevo, durante la stesura il lettore che avevo in mente ero io, da ragazzino, ma durante la revisione si sono aggiunti, come target, mio nipote e il figlio di un mio amico, passando da “questo pezzo deve piacere a me da piccolo” a “questo pezzo deve piacere ed essere comprensibile a Giacomo e Lorenzo”. E l’aspetto dell’“essere comprensibile” è stato un minimo critico. Dopo che le prime due persone avevano letto il testo, il dubbio che un libro per ragazzi, pensato però per chi ragazzo lo era stato trent’anni fa, potesse non avere un senso mi è venuto, facendomi un po’ preoccupare. A posteriori devo dire che mi ero probabilmente preoccupato per niente, perché i due ragazzi hanno apprezzato il romanzo (o hanno finto di averlo apprezzato in modo convincente) e chiedendo loro comunque critiche sul testo hanno segnalato piuttosto qualche scena meno riuscita, o qualche personaggio meno simpatico, ma non il fatto che sembrasse loro strano o incomprensibile, ad esempio, l’assenza di internet e dei cellulari. Probabilmente alcune cose sono “universali”, oppure alla fine l’ambientazione è davvero meno rilevante della storia, dell’avventura in sé.

GG: Parlando di ragazzi, vuoi regalarci qualche ricordo di quando tu, da piccolo, leggevi i Gialli dei Ragazzi? Dicci anche quali erano le tue serie preferite, e parlaci delle altre letture che facevi allora.

MG: I miei genitori mi compravano i Gialli dei Ragazzi quando li trovavamo, e io in casa ne avevo quindi qualcuno. Ma la maggior parte di quelli che ho letto da piccolo li ho avuti in prestito da compagni di classe alle elementari. Non credo che mi dicessero davvero che non potevo tenerli per qualche giorno ma io ricordo che quando me ne passavano uno io arrivavo a casa e lo leggevo tutto d’un fiato. Per quel che mi sembra li ho praticamente sempre finiti nel pomeriggio e nella serata stessa in modo da riportarli il giorno dopo. 

Ho quindi un ricordo piacevole ma strano di quelle letture, forse a tratti un po’ distorto. Un esempio: tra quelli che ho amato in modo particolare c’è La Mummia Sussurrante, che mi è rimasto impresso come un libro splendido per decenni, fino a quando non sono riuscito a comprarlo e rileggerlo per trovarlo, da adulto, decisamente di livello più basso di tanti altri. Sì, allora il meccanismo che spiega la storia mi deve chiaramente essere sembrata molto meno prevedibile, ma chissà che immergermi completamente nella lettura come facevo allora non mi abbia anche fatto godere di più le vicende dei piccoli protagonisti.


GG: La Mummia Sussurrante... intendi chiaramente The Mystery of the Whispering Mummy, il quinto romanzo della serie originale de I Tre Investigatori.

MG: Sì, esatto.

GG: Credo che fosse il numero 34 dei Gialli dei Ragazzi... dico "credo" per non fare quello che ostenta sempre la sua conoscenza enciclopedica, eh, perché lo so con certezza che è il numero 34. Ma proseguiamo. Quindi la tua serie preferita era…



I Tre Investigatori nella versione film TV degli anni 2000



MG: Sì, la mia serie preferita era ovviamente quella de I Tre Investigatori, che in Italia uscì con Alfred Hitchcock indicato in copertina come autore. Ma ho amato la collana in modo quasi irrazionale e ho sempre apprezzato molto anche le altre serie minori, parte delle quali ora sembrano davvero essere invecchiate in modo peggiore. Sul resto, beh, da ragazzo leggevo qualunque cosa trovassi in casa (compreso Readers Digest per dire, passando da Senza Famiglia a Piccole donne) ma ero un fan di Giulio Verne e di Salgari e ho adorato Robinson Crusoe. 



Il mio libro preferito per anni è stato però Il leone la strega e l’armadio di C. S. Lewis – tornato alla ribalta in libreria solo eoni dopo, probabilmente grazie ad Harry Potter ancora prima che al suo film. Negli anni settanta-ottanta direi di averlo riletto 4 o 5 volte, cosa che per me non era affatto normale (allora la mia memoria era buona e avendo tante cose a disposizione, in casa prima e in biblioteca poi, non mi capitava quasi mai di rileggere lo stesso libro troppe volte). E non mi vergogno di dire che ho sperato per anni di trovare l’armadio che faceva da portale per Narnia. Ma questo magari non scriverlo nell’intervista, che poi magari sembra che da bambino fossi già matto.

GG: Certo figurati. Non lo scrivo di certo... ma dimmi... leggi ancora i Gialli dei Ragazzi, come quando eri ragazzino?


MG: Naturalmente no, ora che sono grande leggo cose da grandi, perché, tu no?

GG: Ah, no, anch'io leggo solo cose da grandi, certo.

Ci guardiamo negli occhi: è evidente che stiamo mentendo entrambi, per cui proseguiamo come se niente fosse. 

GG: Cambiando ancora discorso, cosa ci dici dell'esperienza editoriale di KULT Underground/KULT Virtual Press?

MG: Entrambe sono state per me progetti davvero importanti per parecchi aspetti. KULT Underground – rivista, attiva dal 1984 – che è nata come software nel periodo in cui internet da noi non era ancora presente, mi ha permesso di fare i primi esperimenti in ambito multimediale e di entrare in contatto con tantissime persone di tutti i tipi. Dal software al web le cose si sono ancora arricchite ed è stata anche una bella palestra per aspetti organizzativi e “artistici”. La mia produzione “non giovanile” di racconti e poesie, per dire, è nata mentre gestivo la rubrica letteraria di KULT Underground e mentre avevo modo di vedere tanti altri ragazzi o adulti proporsi con il loro materiale. Era ed è ancora un mensile, e anche il ritmo e la periodicità delle cose da fare, della lettura e della scrittura, sono e sono stati utili e stimolanti. KULT Virtual Press – casa editrice – è arrivata poco dopo, e anche qui siamo partiti prima con e-book software (ovvero programmi che lanciati sembravano libri da sfogliare) per poi passare a formati gestiti da supporti hardware, quando, con l’avvento dei palmari prima e dei lettori molto dopo, la necessità di avere un programma e non solo un file è ovviamente diminuita. Mentre KULT Underground è ancora attiva dopo più di vent’anni, KVP è online ma è ferma o quasi. Il ruolo dell’editore digitale al giorno d’oggi è cambiato e quell’esperienza, per avere un senso, richiederebbe un cambio di gestione che per il momento non sono sicuro di volere fare. Ma mi è servita per “pubblicare” Il Mistero della Statuetta Egizia, anche se questa è chiaramente una cosa differente dal motivo per cui la casa editrice è stata ideata.

GG: Certo che hai fatto davvero parecchie cose strane... quindi ti chiedo, pensi di essere un nerd, qualsiasi cosa significhi?

MG: Nì, almeno per quello che intendo io per questo termine. Da un lato ho sempre portato gli occhiali, sono un programmatore, mi piace la fantascienza, leggo fumetti, mi piacciono i videogiochi e ho giocato per anni a giochi di ruolo – quindi un minimo di dubbio può esserci. Dall’altro credo di avere una vita sociale abbastanza normale, sono un animale principalmente diurno (mi piace la luce del sole, adoro camminare all’aperto), non riesco a citare a memoria le battute di Guerre Stellari, Frankenstein Junior o de La storia fantastica (devo averli visti due o tre volte massimo) e non sono affezionato in modo specifico al mio computer (che non ho né assemblato né potenziato). Quindi non so. E non credo di essere neanche un geek, per dire, perché credo di essere relativamente esperto di un numero abbastanza limitato di settori e non credo di avere un QI sopra la media – piuttosto di essere estremamente persistente (diciamo cocciuto proprio) nelle cose che mi interessano. Ma di sicuro non mi offendo se mi chiamano nerd o geek (anche se non credo mi sia mai capitato).

GG: Quali sono i tuoi progetti aperti? Facci un "Prossimamente".

MG: Ce ne sono vari. L'idea è di scrivere entro la fine del prossimo anno un nuovo romanzo per ragazzi (ma sono ancora indeciso su “quale”, perché avevo un’altra trama già completa per un romanzo ambientato negli anni ’90 – con personaggi diversi – ma visto il minimo di interesse per quello che ho terminato sto provando anche a buttare giù un seguito per Il Mistero della Statuetta Egizia) e più o meno entro la stessa data ho in programma di creare un gioco di avventura (un punta e clicca) di una certa ampiezza. Il settore mi interessa molto (perché è quello più vicino alla narrazione) e quest’anno sono riuscito ad arrivare decimo con un gioco realizzato in quindici giorni in un concorso internazionale, lavoro che mi ha permesso di ampliare il motore di gioco che avevo iniziato l’anno prima, e di fare una esperienza più completa sulla grafica di quanto avessi già fatto. Questo risultato mi ha convinto a provare a progettare qualcosa di più ampio respiro. Per farmi capire, un gioco “normale” deve avere una storia che si sviluppi più o meno come un romanzo. Quello che ho realizzato per il concorso era ampio ma era ancora nell’ottica di un racconto lungo (dalla mezz’ora alle due ore di gioco) ma già così, con la divisione in “capitoli”, mi ha dato modo di iniziare a capire come devo muovermi per qualcosa di completo. Ah, un mio sogno sarebbe quello di realizzare un gioco di avventura basato sui personaggi di Robert Arthur (o proprio su uno dei libri) ma l'accantonamento della tua iniziativa di tradurre i romanzi della serie ancora inediti in Italia mi fa pensare che sia un’operazione impossibile, per problemi di copyright.

GG: In effetti i diritti dei Tre Investigatori appartengono alle edizioni Kosmos di Stoccarda e non è possibile pubblicare traduzioni senza il loro consenso; loro non desiderano collaborare con singoli volonterosi, e purtroppo non ci sono case editrici italiane interessate a proseguire una serie interrotta così tanti anni fa. Anche usare i personaggi in un videogioco non si può fare liberamente, ma forse se tu…






Un leggero rumore di freni attira la nostra attenzione. Mi giro anch'io con una certa apprensione, ma... No: non è la Batmobile. È solo una Rolls Royce, che si è fermata a bordo strada. Una vecchia Rolls Royce placcata d'oro! L'autista in livrea è sceso e ha aperto lo sportello posteriore, per i tre ragazzini di prima. Le loro bici sono legate alla rastrelliera vicino alla spiaggia, e i tre stanno salendo sull'auto. 


MG: Gianluca… Li vedi anche tu? 

GG: Io? No, io non li vedo. E tu? 

MG: No, neanch'io. Ma credo che abbiamo nominato Robert Arthur troppe volte, proprio qui a Rocky Beach… cioè, qui in California. Magari è tipo Candyman. 

GG: Eh?

MG: Io non ho detto niente. Non sono stato io a dirlo.

GG: Credo che sia ora di chiudere l'intervista e andarcene a casa. 

MG: Sono d'accordo. Salutiamo le spiagge della California e filiamocela. 

La lussuosa auto riparte e dal finestrino Jupiter Jones ci saluta sorridendo. No, non ci libereremo mai di lui.














1 commento: